Gli errori da evitare

Sono due temi complessi e ‘carsici’, come fiumi sotterranei che saltuariamente appaiono alla luce destando sensazione e stupore. Conflitto d’interessi e lobbying sono questioni distinte ma spesso intrecciate, su cui è facile accendere l’attenzione dell’opinione pubblica italiana. Le ha riportate alla luce, nelle ultime settimane prima del voto europeo, il leader M5S Luigi Di Maio, secondo il quale la loro regolamentazione è una delle cinque leggi da realizzare entro il 2019. Pensiero opposto a quello di Matteo Salvini: non sono una priorità, a giudizio del ‘capitano’ della Lega. In realtà, la regolamentazione dei conflitti d’interesse e delle attività di lobbying è un ‘cantiere infinito’, che ha attraversato numerose legislature (almeno a partire dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1993) e che – sulla base delle premesse storiche e delle caratteristiche dell’attuale maggioranza – difficilmente potrà essere chiuso in questa.

Più che inseguire i contenuti puntuali delle proposte di legge del M5S e del Partito democratico che si rincorrono sul tema alla Camera, è fondamentale segnalare quali errori il legislatore dovrebbe evitare a tutti i costi. Il primo, decisivo, è di non cedere alla (storica) tentazione di far deviare una legge di questo tipo dai binari ‘erga omnes’, nel tentativo di costruire un provvedimento ad hoc nei confronti di questo o quel leader politico, già in campo o semplicemente ‘sospettato’ di voler provare l’avventura politica. La storia repubblicana ci insegna ormai che questo approccio è destinato a fallire, trasformando il destinatario del provvedimento nella ‘vittima’ di una clamorosa privazione dei diritti politici ed evitando ogni ragionevole confronto su un tema così delicato e tecnicamente complesso. Eppure in alcune proposte dei parlamentari pentastellati si legge in controluce questo obiettivo, riferito non tanto ad avversari già presenti sul campo, ma a un importante editore di successo (Urbano Cairo: ndr) che potrebbe prima o poi scegliere la via della politica.

Il secondo errore da evitare, strettamente collegato al primo, è quello di restringere la possibilità di fare politica in base al censo: si muoveva in questa direzione l’iniziale proposta grillina di introdurre il divieto di diventare premier o ministro per chi ha patrimoni superiori ai 10 milioni di euro, che poi è stata saggiamente bocciata dallo stesso Luigi Di Maio. L’errore ideologico è quello di considerare la ricchezza o il successo nella propria vita professionale come un ‘pericolo’ per la collettività, e di conseguenza di immaginare che gli elettori siano una massa di pecore che possono essere docilmente condotte dal pastore con la voce più forte e suadente. Senza prendere in considerazione due elementi, che hanno invece valore positivo presso le opinioni pubbliche dei Paesi avanzati: l’uomo o la donna di successo sarà per definizione più ‘immune’ rispetto a condizionamenti esterni nella sua azione politica e potrà mettere i suoi talenti e le sue competenze (certificati proprio dai suoi successi professionali) al servizio dell’intera comunità. II terzo errore da evitare, sul versante della regolamentazione delle attività di lobbying, è immaginare che sia sufficiente un ‘registro dei lobbisti’ sul modello europeo per rendere più trasparente la professione. È necessario in questo caso mettere in campo una serie di accorgimenti mutuati dalle migliori regolamentazioni del mondo anglosassone. Per esempio il divieto del ‘revolving doors’, fenomeno che oggi consente a chi ha appena dismesso i panni istituzionali o politici di rientrare immediatamente in gioco dall’altra parte del campo, nella squadra di chi difende gli interessi privati. È sicuramente opportuno far rispettare per legge un periodo di attesa tra l’uno e l’altro ruolo. Così come lo è garantire un’adeguata ‘trasparenza bilaterale’ (a tutti i livelli): temi e documenti degli incontri tra decisori e lobbisti ed eventuali finanziamenti devono essere ‘tracciati’ e resi leggibili – mediante l’obbligo di pubblicazione online – su entrambi i versanti, non solo quello dei lobbisti ma anche quello dei decisori pubblici. Al di là dei ragionamenti di merito, la ‘statistica politica’ ci dice che proposte su conflitto d’interessi e lobbying sono utilizzate in Italia da ben 25 anni come bandiere da sventolare all’approssimarsi di una tornata elettorale, per poi essere ripiegate quando non risuona più il rumore delle armi. La vera riforma – culturale, non normativa – dovrebbe consistere in un accordo tra le forze politiche affinché questi due temi siano inseriti tra le regole della ‘casa comune’, che gli avversari politici decidono di condividere prima e al di fuori di ogni competizione. Una sorta di ‘conventio ad excludendum’, che farebbe fare un salto di maturità al nostro sistema politico. Impossibile?

Francesco Delzio/Prima Comunicazione