Attrazione degli investimenti esteri ed export: una crescita messa a rischio da Trump ma anche dall’incertezza politica

In un’economia stagnante o tutt’al più a bassa crescita come quella italiana degli ultimi anni, fa specie osservare un balzo in avanti del 7,4% di una variabile. Non stiamo parlando di una delle tante o di una statistica effimera ma dell’aumento dell’export italiano nel 2017 rispetto all’anno precedente.

Certamente sostenuto da un trend positivo del commercio internazionale, prima che iniziasse a soffiare sempre più forte il vento trumpiano, ma frutto anche di un sistema di promozione del made in Italy che finalmente sembra uscito dall’immobilismo e dalla frammentazione che ne tarpavano le ali fino a pochi anni fa. I 448 miliardi di euro di esportazioni raggiunti nel 2017 rappresentano in termini nominali il 53,6% in più rispetto al 2009. Il saldo della bilancia commerciale è stato dal 2014 in poi stabilmente sopra i 40 miliardi di euro e – dopo aver raggiunto nel 2016 il suo massimo storico (49,6 miliardi di euro) – si è assestato nel 2017 poco lontano, a quota 47,4 miliardi. Cifra che consente all’Italia di piazzarsi in Europa alle spalle solo di Germania e Olanda. Negli ultimi anni questa maggiore competitività sui mercati internazionali ha permesso all’Italia di arrestare il declino della propria quota di export mondiale, scesa dal 3,6% del 2007 al 2,7% del 2012, per poi risalire all’attuale 2,9%, a un passo dal ritorno sopra quota 3%. Risultato tanto più notevole se si considera l’ingresso in società dei Paesi emergenti.

Parallelamente, nell’ultimo anno di rilevazione è aumentato del 50% il flusso in entrata di Investimenti Diretti Esteri (IDE) – dai 19,3 miliardi di euro del 2015 ai 29,0 miliardi di euro del 2016 – il , consentendo all’Italia di superare, seppure di poco, grandi Paesi come la Francia. Negli anni della globalizzazione, gli investimenti esteri vengono a giocare un ruolo sempre più importante per il sostegno allo sviluppo economico. Lungi dall’essere uno strumento di colonizzazione, come una certa pubblicistica, talvolta insospettabile, li bolla giocando sulla carta del più cieco nazionalismo, rappresentano uno dei vettori principali di internazionalizzazione delle attività economiche, si tratti di acquisizione di imprese esistenti o di creazione di nuove realtà produttive nel Paese destinatario.

I numeri relativi all’export e agli investimenti diretti esteri descrivono risultati importanti che tuttavia vanno non solo confermati ma incrementati con un lavoro che permetta di dare continuità a quanto svolto negli ultimi anni, i cui meriti vanno certamente ascritti, in primis, alla vitalità del sistema economico italiano, ma anche alle buone policy messe in campo. Ci riferiamo ad esempio al decreto cosiddetto “Sblocca Italia”, che ha previsto l’adozione di un “Piano per la Promozione straordinaria del Made in Italy e l’Attrazione degli investimenti in Italia”.

Se sul piano dell’export già negli anni precedenti si era avviata la riorganizzazione della governance – con la ristrutturazione dell’ICE e poi il completamento nel 2016 dell’integrazione tra Sace e Simest, già da alcuni anni nel perimetro di Cassa Depositi e Prestiti – le novità sul piano dell’attrazione degli investimenti sono state una prima assoluta. Con al centro la costituzione del Comitato interministeriale per l’attrazione degli investimenti esteri, presieduto dal ministro dello Sviluppo economico e al quale partecipano sia le istituzioni centrali che regionali, al quale spetta la formulazione di policy per migliorare l’attrattività dell’Italia e il coordinamento delle attività delle amministrazioni pubbliche, sbloccando situazioni complesse ed evitando rallentamenti nell’avvio dei progetti. Una vera rivoluzione in un Paese parcellizzato come l’Italia, ulteriormente slabbrato della riforma costituzionale del 2001.

Di fianco al Comitato, operano dentro l’ICE nove desk che operano all’estero, posti nelle principali piazze finanziarie e commerciali per intercettare i potenziali investitori, mappare i loro piani di sviluppo internazionale e le loro esigenze e fornire supporto durante tutto il ciclo di investimento, un Dipartimento interno all’Agenzia responsabile per le azioni di supporto e una Cabina di regia unica (istituita il 13 luglio del 2017) tra ICE ed Invitalia.

Finalmente, con quest’ultima, anche l’Italia si è dunque dotata di un soggetto “facilitatore” per spianare la strada a chi, dall’estero, vuole scommettere sul Belpaese, sia prima di arrivare — con progetti e “un’offerta” chiara —, sia dopo l’arrivo, con una struttura unica a cui affidarsi per superare gli ostacoli che possono presentarsi. Un gruppo di progetto composto da 10 risorse ICE e 6 di Invitalia: certamente uno staff esiguo rispetto alle esigenze e a quanto fanno altri Paesi, ma certamente un primo importante passo nella direzione giusta. Per incominciare ad aggredire alcuni evidenti punti deboli della nostra attuale internazionalizzazione, su tutti un evidente squilibrio sia rispetto ai Paesi di destinazione dei nostri prodotti che rispetto alle nostre Regioni esportatrici. Basti pensare che in Cina si indirizza ancora oggi appena il 3% del nostro export, che fa della superpotenza asiatica soltanto l’ottavo mercato di sbocco per il made in Italy, dietro il minuscolo Belgio. O che il Piemonte, che con il 10,8% è la quarta Regione esportatrice, sopravanza il Sud e le Isole insieme considerati (che si fermano al 10,4%, poco sopra la provincia di Milano che da sola fa il 9,1%).

Dopotutto non ci si deve stupire se sono solo poco più di 4.000 le aziende con base in Italia che esportano all’estero per un valore superiore a 15 milioni di euro in un anno. Insomma, con politiche serie, che sembrano esserci, e un’attuazione che deve trovare una sua continuità, dopo i primi passi percorsi, non sembra una chimera l’aumento della propensione all’export di cui parla in continuazione, come fosse un vero e proprio mantra, Carlo Calenda. Sugli investimenti esteri il discorso è simile. Se dai flussi passiamo agli stock, l’Italia nel 2016 era appena 18esima con 346 miliardi di dollari – appena il 18,7% del prodotto interno lordo – contro il 45,5% del Regno Unito, il 45,2% della Spagna, il 28,3% della Francia e il 22,2% della Germania.

Con le tante incognite del quadro internazionale, a partire dall’escalation commerciale in atto tra USA e Cina, un po’ di stabilità nazionale non guasterebbe. Almeno nella strategia per l’internalizzazione, che qualche segnale positivo, dopo le tante delusione del passato, lo sta finalmente dispensando.

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Stefano da Empoli/Linkiesta