Prima la sorpresa, poi il silenzio carico di paura, infine il cinico e rapido riposizionamento. È questa la sequenza delle reazioni attribuite agli attuali (presunti) ‘poteri forti’ del nostro Paese da molte menti ingenue o capziose, le quali immaginano che i vincitori delle elezioni del 4 marzo pensino di distruggere – per poi ricostruire a loro piacimento – la mappa economica dell’Italia. E che con la stessa dose di creatività immaginano, di conseguenza, che i big player del settore privato debbano difendersi da loro come se avessero di fronte i peggiori untori della peste manzoniana.
La conseguenza diretta di questa visione apocalittica è una nuova malattia dalle cause oscure e dalla durata incerta, che sembra aver colpito giornalisti, commentatori ed esperti d’ogni tipo, e che potremmo definire “sindrome dello sdoganamento”. Nello strano mondo creato da questa sindrome esistono newcomers della scena politica che hanno bisogno di essere sdoganati: come se il potere non appartenesse al popolo sovrano e il processo democratico non fosse in grado di selezionare classi dirigenti idonee a governare il Paese. Ed esistono, simmetricamente, protagonisti dell’economia e della finanza che hanno bisogno di sdoganare una nuova maggioranza politica: come se la globalizzazione dei mercati e dei capitali non fosse mai esistita e come se vivessimo in un regime nel quale l’iniziativa privata è consentita solo se gradita al sovrano.
Dietro quest’ottica distorta si annidano, a mio avviso, gravi tare culturali in cui è ancora immerso il dibattito pubblico italiano e di cui dovremmo sbarazzarci rapidamente. Ne cito solo due: il diffuso sentimento anti industriale e anti impresa, che ha radici lontane e sembra non voler abbandonare la coscienza di massa degli italiani, e un’idea dell’onnipotenza della politica che non trova più riscontro nella realtà. La sindrome dello sdoganamento si è materializzata quando hanno fatto notizia le dichiarazioni del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, che già il 6 marzo affermava che “i cinquestelle non fanno paura, valutiamo i provvedimenti”, spiegando nei giorni successivi a Lucia Annunziata: “Se avessimo paura di dialogare non potremmo lavorare con nessuno e non dovremmo fare questo mestiere. Noi dobbiamo calmierare i mercati, abbiamo una responsabilità importante”. Parole equilibrate e di buon senso, perfino ovvie in una logica matura dei rapporti tra pubblico e privato, che chiunque sappia che cos’è stata e che cosa è oggi Confindustria dovrebbe considerare perfettamente coerenti con la natura (al tempo stesso) apartitica e politica della grande casa delle imprese italiane. Parole che invece hanno destato impressione e fatto notizia, al pari del più brutale e coevo “ho visto di peggio (dei cinquestelle, ndr)”, attribuito al numero uno di FCA, Sergio Marchionne, come se segnassero una novità epocale – e quindi per definizione discutibile – nella mappa degli assetti di potere nostrani.
Anche guardando con attenzione all’altra parte del fiume, la sindrome dello sdoganamento non ha alcun senso. In questo caso può andare bene per rafforzare l’identità di base dei blog motivazionali, non certo per fornire chiavi di lettura su quanto faranno (eventualmente) i cinquestelle al potere. È facile scommettere che il film dei rapporti tra decisori pubblici e protagonisti del business sarà molto diverso da quello apocalittico, qualsiasi assetto di governo dovesse realizzarsi in Italia durante la primavera del 2018. Perché ai leader di cinquestelle e Lega non difetta affatto il realismo. E perché, condizione necessaria per distribuire ricchezza, è che prima qualcuno sia in grado di crearla. Una regola elementare, quest’ultima, che non dovremmo mai dimenticare.
Francesco Delzio/Prima Comunicazione