La corsa della spesa pubblica italiana

L’espressione “spending review” ha dominato nel nostro Paese le strategie di governo per molti anni, almeno a partire dal 2011. Peccato però che il fenomeno sta rimasto soltanto sulla carta e che un taglio rilevante della spesa pubblica, in Italia, non ci sia mai stato. Di quell’espressione così usata e abusata è rimasta dunque solo la «battaglia semantica», lo slogan politico (sempre meno efficace) fine a se stesso, senza che tutto cid abbia prodotto nessun dimagrimento strutturale della macchina pubblica.

La spesa pubblica corrente in Italia vale quest’anno il 45,5% del Prodotto interno lordo, in crescita di 0,7 punti rispetto al 2018. Il nostro Paese si è mosso in direzione opposta agli altri Paesi della zona euro, dove in media le uscite correnti sono passate dal 43% al 42,9% del PIL. E non c’è alcuna speranza che la situazione possa cambiare nei prossimi anni. La prova è contenuta nel Documento di Economia e Finanza 2019, pubblicato dal governo all’inizio di aprile: nel futuro prossimo la spesa pubblica totale in Italia non soltanto non sarà ridotta, ma salirà ancora. Nei prossimi 2 anni l’aumento sarà di 41 miliardi, da 854 miliardi del 2018 a 895 miliardi nel 2020: si tratterà di una crescita più rapida di quella fatta registrare nel biennio precedente, quando l’incremento fu di “soli” 25 miliardi. Quale è la causa principale dell’inarrestabile corsa della spesa pubblica in Italia? Lo si “scopre” agevolmente nello stesso Documento di Economia e Finanza: nel triennio 2019-2021 i maggiori incrementi di spesa pubblica saranno dovuti ad interventi nei settori del lavoro e delle pensioni, in virtù dell’introduzione di reddito di cittadinanza e di quota 100 (che determineranno aumenti di spesa rispettivamente per 23,5 e 20,5 miliardi nel triennio). Eppure già oggi l’Italia è il Paese europeo che destina la più ampia porzione del suo PIL al pagamento delle pensioni: ben il 15,7% contro il 15% della Francia, il 12,2% della Spagna e il 9,5% della Germania. Una differenza, questa, che non può essere giustificata soltanto dal più rapido invecchiamento della popolazione italiana: l’Italia è oggi al secondo posto tra i Paesi Ocse per quota di persone con un’età superiore ai 65 anni sulla popolazione in età lavorativa, ma la differenza rispetto a Germania e Francia non è così rilevante. Per questa via, continuiamo ad “ipotecare” una quota di futuro a danno dei nostri figli. Ma quanti italiani ne sono consapevoli?

Francesco Delzio/Avvenire