Lobby d’autore – Chi ‘pensa’ la politica in Italia?

Per i think tank nostrani pochi soldi, pochi rapporti internazionali e con i media. Risultato: un grande vuoto di analisi e proposte di cui avremmo molto bisogno.

La campagna elettorale che sta per abbattersi su di noi sarà tra le più tristi che l’Italia repubblicana ricordi. Come definire una campagna in cui nessuno dei contendenti ha prospettive di governo, perché tutte le simulazioni danno oggi una situazione in cui nessuno dei tre poli può raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi? A questa debolezza delle regole di sistema – superabile (in teoria) chiedendo agli italiani un voto utile’ o più probabilmente (in pratica) costruendo coalizioni trasversali dopo il voto – si aggiunge tuttavia un’altra debolezza. Più profonda e apparentemente insuperabile. E l’inquietante deficit di idee e proposte per cambiare l’Italia, che sembra colpire trasversalmente i tre poli e i loro principali partiti. Nell’era dell’anti politica e dei partiti leggeri, la politica italiana si trova dunque a fare i conti con un vuoto di pensiero politico. Chi pensa il pensiero politico oggi in Italia? A questa domanda non c’è risposta. Perché il nostro Paese sembra aver scelto – più o meno consapevolmente – che il pensiero politico non valga la pena d’esser pensato. Tramontate da molti anni le scuole di partito, l’elaborazione del pensiero politico non può essere più garantita in alcun modo dai mitici funzionari di partito. Chi di loro fosse miracolosamente sopravvissuto alla chiusura di interi partiti e ai violenti tagli di budget che hanno colpito quelli rimasti in piedi negli ultimi anni, falcidiandone le strutture e in primo luogo i nuclei di ricerca e di analisi, vive oggi nell’angoscia di doversi cercare rapidamente un altro lavoro. La riforma del finanziamento pubblico, infatti, è una bomba a orologeria che molto presto produrrà la cancellazione di questa figura professionale. Ma il vero vulnus nel sistema di elaborazione del nostro pensiero politico è il fallimento (finora) in Italia delle fondazioni politiche e dei think tank, che invece nel resto dell’Occidente e soprattutto nel mondo anglosassone hanno colmato il vuoto di pensiero nato dalla fine dei partiti di massa.

Negli Stati Uniti i think tank sono da decenni serbatoi di pensiero che aiutano il governo e l’intera classe politica a pensare dottrine, strategie e proposte. Sono soggetti capaci di influenzare sia il dibattito pubblico sulle policy sia il decisore pubblico, soprattutto perché dotati di autorevoli strutture di ricerca. In Italia i think tank sono invece (mediamente) poco influenti e tendenzialmente provinciali, hanno una scarsa produzione scientifica e una bassa visibilità media. In sostanza: con pochissime eccezioni, i think tank non creano pensiero politico e non incidono granché sulle politiche. Prendendo a prestito l’importante analisi sul tema realizzata dal professor Mattia Diletti dell’università La Sapienza, possiamo affermare che “i think tank italiani non hanno le stesse strutture di ricerca di quelli americani, né tanto meno abbiamo nel nostro Paese la stessa convinzione culturale che sia imprescindibile investire nella ricerca. In Italia i think tank non riescono talvolta neanche a far uscire il dibattito dai loro convegni, figuriamoci a raggiungere il Parlamento o il governo”. Dal confronto tra la realtà italiana e quella americana, emergono enormi deficit a carico dei think tank nostrani su tutti i parametri fondamentali: budget, produttività scientifica, internalizzazione, visibilità mediatica. Basti pensare che il budget medio dei 105 think tank censiti in Italia è di 800mila euro, irrisorio rispetto ai 90 milioni di dollari del Brookings Institution di Washington o agli 8,6 milioni di euro del bruxellese Ceps. E che il 22% dei think tank italiani non produce alcuna attività di ricerca, svolgendo soltanto una funzione di megafono di uno o più leader politici, mentre solo il 19% di essi pubblica almeno dieci ricerche annue (raggiungendo quindi un indice significativo di produttività scientifica). E che quasi la metà dei think tank italiani non ha alcun rapporto internazionale. E, infine, che il 21% dei think tank nostrani non è mai apparso sulla stampa italiana (mentre solo il 18% di loro riesce a conquistare in un anno più di 50 citazioni sui media).

Non è un caso, dunque, che alla domanda iniziale (chi pensa il pensiero politico in Italia?) non ci sia risposta. Viviamo felici e inconsapevoli, nell’illusione che bastino le riflessioni della Banca d’Italia, le analisi del Censis, le statistiche dell’Istat o addirittura gli studi della Cgia di Mestre a sviluppare una vera opinione pubblica e a far crescere la capacità di mobilitazione cognitiva degli italiani. L’effetto finale è uno solo: come scriveva già novant’anni fa Piero Gobetti nella Rivoluzione liberale’, “senza conservatori e senza rivoluzionari, l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico”.

di Francesco Delzio/su Prima Comunicazione