Nuovi eurodiritti sociali e centralità del lavoro

Probabilmente il vertice dell’Unione Europea sul Welfare, in corso a Goteborg, entrerà a far parte del ristrettissimo club degli appuntamenti “storici” che caratterizzano il faticoso e accidentato divenire della casa comune europea. La proclamazione di un pilastro europeo dei diritti sociali, avvenuta nella capitale svedese, porta con sé molti effetti positivi: arricchisce notevolmente i contenuti del progetto europeo, avvicina l’Unione ai bisogni più forti dei suoi cittadini più deboli ed è un segnale esplicito contro la riduzione del sogno Ue a una triste e ragionieristica somma di moneta unica, mercati (più o meno) liberi e burocrazia normativa comune.

In sintesi, d’ora in poi l’Unione Europea dovrà garantire che siano rispettati nei Paesi membri tre macro-categorie di diritti sociali: pari opportunità e accesso al mercato del lavoro, condizioni di lavoro eque, protezione e inclusione sociale. E una buona notizia, sia per il futuro dell’Europa che degli europei. C’è tuttavia una condizione “filosofica” essenziale, dalla quale dipenderà la reale utilità (e applicabilità) di questo nuovo pilastro europea. L’ha esplicitata con chiarezza e determinazione Emma Marcegaglia, in qualità di presidente di Business Europe (la confederazione europea delle Confindustrie): «Il pilastro sociale europeo e le politiche per la crescita economica devono essere tenute insieme, perché il progresso economico è la base per il benessere sociale. Non è con nuo – vi interventi legislativi a livello europeo che si possono creare nuovi posti di lavoro». È un monito importante, quello della Marcegaglia, contro quel partito del “dirittismo” (assai diffuso nei palazzi di Bruxelles) che continua a inseguire uno schema culturale anacronistico e pericoloso, immaginando che le leggi sul welfare debbano essere semplicemente strumenti di riequilibrio dei rapporti di forza in azienda tra datore di lavoro e lavoratore. Mi sto riferendo, per capirci, allo schema marxista classico. Peccato che sia stato ampiamente superato dalla storia e dalle dinamiche di un mercato, nel quale imprenditori e lavoratori sono sempre meno contrapposti e sempre più “sulla stessa barca”: perché la competitività di un’impresa si fonda oggi, in gran parte, sulla qualità dei lavoratori e del loro lavoro. Non è un caso che il premier italiano Gentiloni abbia tenuto a Goteborg sostanzialmente la stessa linea, ricordando che «prima di tutto abbiamo bisogno di politiche economiche perla crescita» e che l’Italia sta facendo la sua parte, grazie soprattutto al JobsAct che – piaccia o non piaccia – ha generato negli ultimi tre anni quasi un milione di posti di lavoro. E proprio la possibilità di un lavoro dignitoso e retribuito in modo equo, in realtà, il primo “diritto sociale” di ogni cittadina Qualsiasi piattaforma di welfare non può che partire da questa consapevolezza. Perché solo evitando di “distruggere” le chances di creazione di lavoro, è possibile migliorare la qualità del lavoro e della vita fuori dal lavoro.

di Francesco Delzio/su Avvenire