Quell’Italia che (in silenzio) vince nel mondo

Quanti lettori sanno che, nel commercio mondiale, l’Italia è il secondo Paese più competitivo al mondo dopo la Germania? Temo pochissimi, tranne gli addetti ai lavori. Eppure è la realtà incontrovertibile dei numeri del Trade Performance Index 2016: una classifica internazionale di cui nessuno (nel dibattito pubblico nazionale) parla e scrive, che rappresenta tuttavia a livello globale uno dei migliori “termometri” dello stato di salute del sistema imprenditoriale di un Paese. Questo indice confronta infatti la forza delle aziende di 189 Paesi in 14 settori, misurando i dati più significativi come (tra gli altri) la quota di export mondiale, il saldo commerciale con l’estero, il numero di mercati in cui riescono a penetrare i prodotti di un sistema-Paese. E rivela l’incredibile capacità di intraprendere degli italiani: nei 14 settori considerati, il nostro Paese vanta nel mondo ben due primi posti (nell’abbigliamento e nei prodotti in pelle e cuoio), cinque secondi posti, un terzo posto e un quinto posto per migliore competitività commerciale. Un bottino inferiore, appunto, solo a quello tedesco. E un risultato che dovrebbe portare aria nuova nelle chiuse stanze del nostro dibattito politico. Imponendo subito una raffica di riflessioni controcorrente. La prima è l’insensatezza di una rappresentazione dell’Italia- sempre più diffusa ahinoi- come “Disneyland della storia” destinata a vivere solo di turismo, cultura e narrazione. Nonostante la perdita di numerose grandi imprese negli ultimi 20 anni, il Pil e l’occupazione del nostro Paese sono ancor oggi (in gran parte) figli della grande capacità manifatturiera degli italiani e di una innovazione di prodotto che probabilmente non ha eguali al mondo.

La seconda riflessione riguarda la “flessibilità” del modello d’impresa ideale nei diversi settori: le grandi economie di scala non sono l’unica strada possibile perla competitività, o almeno non in tutti i settori. In ambiti come, tra gli altri, l’abbigliamento, il tessile, la meccanica, l’alimentare si può “vincere” nel mondo anche con dimensioni medie, puntando sulla qualità della produzione e su una presenza produttiva e distributiva chirurgicamente posizionata nei mercati a più alto tasso di crescita. Un’altra riflessione riguarda la percezione dell’italianità nel mondo, che viene ancora associata al “ben fatto”, al gusto, alla cura artigianale del prodotto. E come se l’antico spirito delle botteghe rinascimentali fosse ancora, in qualche modo, percepito e riconosciuto. Per evitare inutili trionfalismi, è giusto rilevare anche il rovescio della medaglia: se tutto ciò non si traduce in una crescita del Pil in linea con Germania e Francia, vuol dire che le imprese vincenti rappresentano “isole” in un mare (che rimane) in tempesta. Costruire ponti tra le isole e scialuppe per chi cerca di raggiungerle, non può essere certo compito di chi intraprende.

di Francesco Delzio/su Avvenire