Sono giovane. E non so dove andare

Pochi, disoccupati e soprattutto disorientati. L’identikit dei giovani italiani emerso dalla recente indagine Censis mette i brividi e impone riflessioni capaci di scavare in profondità nelle nostre ataviche debolezze, superando la cronaca dei dati nudi e crudi. Ha destato impressione il dato secondo cui la quota di giovani 15-34 anni sulla popolazione complessiva in Italia è la più bassa in assoluto tra i 28 Paesi dell’Unione Europea (pari al 20,8%). Ma si tratta “soltanto” di un effetto, già ampiamente, noto dei nostri record di de-natalità. Molto più preoccupanti sono invece altri due dati, che riguardano da vicino la qualità del nostro sistema formativo. Primo: i (pochi) giovani italiani faticano molto oggi a trovare un’occupazione, visto che tra il 2007 e il 2017 gli occupati tra i 25 e i 34 anni sono calati del 27,3%, pari ad un milione e mezzo di giovani lavoratori in meno. Secondo: ciò vale anche, forse soprattutto, per i ragazzi più istruiti. Nel 2007 si contavano infatti 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani, dieci anni dopo sono diventati soltanto 143.

Come è potuto accadere? «Giovane disorientato» è il titolo d’una fortunata hit del rapper Rocco Hunt, vincitore di Sanremo Giovani nel 2016, che descrive meglio di mille saggi la condizione dei millennials italiani. Ma è soprattutto la condizione-tipo dei nostri ragazzi, perduti nel “deserto dell’orientamento” di fronte alla prima scelta decisiva per il loro futuro nella società: quali studi universitari intraprendere, imboccando una strada utile per l’inserimento nel “mercato del lavoro” più complesso della storia contemporanea? Le indagini in materia offrono esiti strazianti. Tra le più credibili un’ampia ricerca di AlmaDiploma che ha coinvolto 40mila diplomati, secondo la quale il disorientamento tra gli studenti in Italia inizia fin dalla fine delle scuole medie. Ovvero dal momento in cui è necessario scegliere la scuola superiore: basti pensare che dopo averla frequentata, quasi il 50% dei ragazzi interpellati cambierebbe la scelta fatta.
Una domanda, dunque, sorge spontanea. Chi dovrebbe occuparsi di orientamento (alla formazione e al lavoro) dei nostri ragazzi? Tutti e nessuno, secondo uno schema tipicamente italiano di polverizzazione istituzionale e sociale. Dovrebbero essere – in ordine sparso – il Ministero dell’Istruzione e dell’Università, le Regioni, le stesse Scuole e Università, i Centri per l’Impiego, una serie di Enti pubblici. Ma è una catena di irresponsabilità: tanti co-titolari di questa delicatissima funzione, nessun attore protagonista.
E così, lasciando la questione strategica dell’orientamento all’improvvisazione e alla solitudine dei nostri ragazzi, l’Italia continua a soffrire di un grave mismatch tra domanda e offerta di laureati: continuiamo ad essere – senza che si vi siano segnali di ravvedimento – un Paese straordinariamente ricco di avvocati e commercialisti, ma incredibilmente povero di laureati dell’area STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Basta un dato a rappresentare la situazione: solo il 24% degli studenti italiani si iscrive dopo la maturità a una delle facoltà scientifiche, che pure nei prossimi 10 anni rappresenteranno l’85% dei posti di lavoro disponibili sul mercato. Anche perché studiare di più non premia (abbastanza): i laureati italiani hanno un premio salariale del 41% rispetto ai diplomati, un valore inferiore al 56% della media Ocse. Perché il mercato del lavoro italiano premia la formazione solo fino ad un certo livello, mentre è sostanzialmente incapace di assorbire i livelli più elevati di qualificazione e di riconoscerne il valore. La “fuga dei cervelli”, almeno in parte, nasce proprio da qui.

Un’altra anomalia nel rapporto tra formazione occupazione, di cui si parla ancor meno, è altrettanto pericolosa e sicuramente più “irritante”: dopo aver rappresentato per decenni un’eccellenza sul tema, negli ultimi decenni abbiamo letteralmente abbandonato quella formazione professionale che aveva fatto le fortune del nostro modello dei distretti e delle piccole imprese a rete. Un tentativo parziale di rinascita c’era stato, in realtà, con la “Buona Scuola” renziana che aveva istituzionalizzato l’alternanza scuola-lavoro. Ma il sussulto è durato lo spazio di tre anni, visto che la Legge di Bilancio taglia più della metà delle ore dedicate all’apprendimento in azienda per gli studenti d’ogni ordine di scuola superiore, dagli istituti tecnici ai professionali ai licei, e riduce in maniera più che proporzionale le risorse stanziate dallo Stato. Come ha segnalato il Vice Presidente di Confindustria per il Capitale umano Gianni Brugnoli, si tratta di un grave errore che rischia di generare un paradosso tutto italiano: «Avere, grazie a Industria 4.0, nuovi macchinari, ma non trovare le persone giuste per farli funzionare». Accade così che in un Paese come l’Italia che ha tassi di disoccupazione particolarmente alti per le generazioni dai 15 ai 35 anni, oggi il 33% delle professionalità tecniche richieste dalle aziende risulti “introvabile”. Mancano, tra gli altri, operai specializzati, meccanici, montatori, elettronici-elettrotecnici, specialisti delle costruzioni. E alla base di questo mismatch c’è proprio un sistema formativo che non dialoga adeguatamente con il mondo del lavoro.

Mentre i nostri “giovani disorientati” rischiano di pagare nei prossimi anni anche la retromarcia italiana sulla strada dell’alternanza scuola-lavoro, in direzione opposta si muove da tempo la Germania. Sono noti a livello internazionale i risultati della Duale Ausbildung, la formazione duale tedesca, considerato il modello di riferimento globale nel settore dell’alternanza scuola-lavoro: ogni anno forma quasi 1,5 milioni di giovani tedeschi garantendo loro un tasso di collocamento finale semplicemente straordinario, pari al 95%.
Perché in Germania l’esperienza del lavoro non è semplicemente lo spazio dove si eseguono le istruzioni ricevute a scuola: il posto di lavoro è pensato come spazio di apprendimento complementare a quello dell’aula. Ovvero: sapere e fare non vengono concepiti in contrapposizione tra di loro – come accade ancora, troppo spesso, in Italia – ma sono considerati “beni” dello stesso livello, che possono e debbono integrarsi per garantire ai giovani una formazione competitiva.
Un altro esempio interessante è quello della Finlandia, emerso a seguito della leadership conquistata dagli studenti finlandesi nei test PISA e più in generale nei principali  indicatori internazionali di apprendimento. Caratteristica fondamentale del modello finlandese è il superamento della didattica per discipline: si parte dal presupposto che i saperi debbano essere esplorati a partire da problemi concreti, premiando attività come il gioco, lo studio di gruppo e la risoluzione di problemi del quotidiano. Gli studenti non studiano le formule della fisica immaginando come un giorno potranno applicarle alla costruzione di un motore di nuova generazione: al contrario, si pongono il problema di come ridurre i consumi di un motore per mobilitare tutti quei saperi che sono necessari alla soluzione del problema. E’ una sorta di “metodo Montessori” applicato ai temi della tecnologia.

Di fronte a questa emergenza-educazione, ci si attenderebbe una reazione forte delle istituzioni ed un altrettanto potente “coinvolgimento emotivo” delle famiglie. Nulla di tutto questo, ahinoi. Il pendolo continua ad oscillare, come avviene da molti anni, tra la fuga all’estero alla ricerca di luoghi che valorizzino il merito e l’italica caccia alla raccomandazione decisiva. Solo i nostri ragazzi più coraggiosi affrontano il deserto dell’orientamento cercando oasi di merito e di competenza. Faranno più fatica degli altri, muovendosi controcorrente. Ma è facile scommettere che saranno premiati.

Francesco Delzio/Prima